Dieci giorni senza me

Credevo che le 4 del mattino non esistessero. Sono una specie di luogo comune, un’invenzione letteraria, il momento buono per scrivere una lettera all’amante di tua moglie (se sei Leonard Cohen), o per nascondere un cadavere (se non c’era spazio nella seconda pagina di Google).

Eppure è anche l’ora ideale per farti svegliare da un gong, dare due schiaffi alla tua determinazione per riportarla in vita, sciacquarti in fretta ciò che resta della faccia, salire una scalinata di ciottoli, sgattaiolare tra i cuscini in cerca del tuo, respirare, e realizzare di cosa sei fatto: una massa di vibrazioni, che chiami dolori o piaceri a seconda dei casi.

Poi esci, scopri che anche il giorno nel frattempo è rinato, fai colazione evitando persone e sguardi, e fai ancora due passi sui ciottoli scricchiolanti, dando la caccia a qualche vecchio pensiero dal quale avevi cercato di fuggire, ma che ora ti senti in grado di affrontare a viso aperto.

Vedi arrivare una persona, o meglio i suoi piedi, e scegli la giusta traiettoria per evitare la collisione – anche solo uno “scusa” per averlo urtato romperebbe il Nobile Silenzio che ti è stato chiesto. Strano, però, vedere persone che camminano in un parco con la testa china, ma senza un cellulare in mano.

Ti chiedi ogni giorno dove saranno le vacche – 5 bianche e 1 pezzata – che pascolano sul lato opposto della vallata; noti che sono sempre orientate da sinistra verso destra e che la pezzata – la vacca-alpha, evidentemente – è sempre capofila.

Poi di nuovo tra i cuscini, a rifare un censimento di ciò che senti e a lottare contro mal di schiena e arti così addormentati che ne temi l’amputazione, mentre la voce registrata del Maestro canta in una lingua morta. La sua voce è serafica e tonante come quella di un villain cinematografico. Lo immagini panzuto, con occhiali dalla montatura dorata, grandi anelli alle dita, mentre accarezza in grembo un cucciolo di tigre albina.

E così, per 10 giorni, ho fatto conoscenza con la meditazione Vipassana.